giovedì 8 novembre 2018

La polisemia delle atrocità. Memorie di un fotografo in guerra

Nel rifiuto di voler pubblicare fotografie ritraenti atrocità di guerre lontane dalla propria terra, quanto c'è in esso il decoro per una vita altrui e quanto invece soltanto la strenua difesa della propria serenità altrimenti da esse scalfita?
Si vuol vietare la diffusione di un'immagine violenta perché essa viola la dignità della persona ritratta, o soltanto perché essa infrange la barriera di cristallo dentro cui vogliamo difendere la serenità della nostra vita al sicuro dai cannoni?
Ci ferisce ciò che quella immagine rappresenta, o a volte porgiamo difese ad essa soltanto perché essa non turbi la nostra incolume quiete?
È vera pietà per i morti la nostra, o soltanto opportuna difesa per chi resta vivo e lontano da quelle atrocità?
Come se il non voler vedere, il non voler mostrare simili morti potesse rendere il dolore delle guerre lontano dalle proprie vite.
Come se il voler negare simili atrocità volesse affermare l'esistenza di un mondo migliore anche quando esso non esiste affatto.
Ma allorquando si decida di negare la visione di simili atrocità, per quanto poi si voglia gridare la propria assoluzione di fronte ai conflitti in atto, la nostra indifferenza farà sì che saremo sempre anche noi coinvolti, e se non come efferati perpetratori, lo saremo come occulti censori o come silenti spettatori.



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